Editoriale da: NEV- Notizie
Evangeliche Federazione delle chiese evangeliche in Italia
di Luca Baratto
Non c'è molta serenità in questo Natale che viene. Se nelle
chiese quello d'Avvento è un periodo di attesa, nelle strade delle nostre città
non c'è molto ottimismo su ciò che ci aspetta: un prolungamento della crisi che
continua a mordere, iniziata come finanziaria, proseguita attaccando gli stati
nazionali e l'economia reale ed ora in procinto di trasformarsi in recessione.
Il tenore di vita di molti si abbasserà, ma il vero spettro è la perdita di
posti di lavoro. Più triste del dover rinunciare a un po' (o a molto) del
benessere dato per scontato, è la vista degli operai di Termini Imerese al loro
ultimo giorno di lavoro; sono i numeri dei cassintegrati che vivono nella
sospensione del lavoro, dei giovani precari e di tutti coloro che risultano
impiegati senza per questo essere in grado di guadagnarsi da vivere.
Il protestantesimo ha qualcosa da dire su questa crisi? Non è
una domanda peregrina, perché, se non è compito di una teologia o di una chiesa
definire un programma economico, è pur vero che la Riforma, e in particolare il
suo ramo calvinista, ha sviluppato un'etica del lavoro per cui è giustamente
famosa. Chi non conosce (almeno il titolo) dell'opera in cui Max Weber esamina
il possibile rapporto tra "L’etica protestante e lo spirito del
capitalismo"? Se la domanda è: una sostanziosa iniezione di calvinismo
nelle nostre società ci tirerebbe fuori dalla crisi?, la risposta è facile: no!
Non c'è bisogno di più calvinismo bensì di una rinnovata etica della dignità
umana.
Nel XVI secolo la Riforma, attraverso la sua spiritualità e la
sua etica, proprio questo ha voluto fare: affermare la dignità all'essere umano
nella sua dimensione secolare, operando così una rivoluzione teologica e
culturale. Per i Riformatori l'unico ambito in cui la fede può essere vissuta è
l'esistenza quotidiana in tutti i suoi ambiti: nel matrimonio e nella famiglia
piuttosto che nel celibato e nella comunità monastica; nell'uguaglianza di
tutti i fedeli e non nella loro divisione in chierici e laici; nel vivere il
lavoro come l'ambito della propria vocazione cristiana. In questo senso,
l'affermazione della dignità umana si situa nel quadro di una società secolare
operosa dove ogni persona serve Dio e il prossimo.
Che l'affermazione della dignità umana compaia ogniqualvolta il
protestantesimo torni a riflettere sul lavoro è evidente nel Settecento inglese
della Prima rivoluzione industriale. In un contesto sociale stravolto dalle
nuove fabbriche e davanti a condizioni di lavoro massacranti che rendevano
impossibile affermare il lavoro come vocazione, il nascente movimento
metodista, guidato da John Wesley, portò una predicazione diversa da quella
calvinista, insistendo sul concetto di conversione: cioè sul fatto che è
possibile cambiare, uscire dall'abbrutimento delle fabbriche e degli slums – i luridi tuguri urbani in cui
vivevano gli operai -, riprendendo in mano le redini della propria vita. Una
predicazione credibile perché non pronunciata nelle chiese ma nelle piazze e
nei luoghi di lavoro.
Non diversamente operò il movimento del Social
Gospel negli Stati
Uniti di fine Ottocento e inizio Novecento, quando, dopo la guerra di
secessione, si affermò il modello industriale degli stati del nord vittoriosi
su quelli schiavisti del sud. Questo non evitò l'affermarsi di nuove schiavitù
a danno degli operai e delle loro famiglie. Il Social
Gospel propose una
predicazione basata sull'annuncio del Regno di Dio e della sua giustizia, di
cui l'equità sociale è parte integrante. Il Social Gospel si oppose anche a un'altra teologia
nata all'interno del protestantesimo: il cosiddetto "vangelo della
ricchezza" che dava per scontata e, anzi, incoraggiava la diseguaglianza
sociale come mezzo per produrre benessere; la questione etica riguardava solamente
l'uso che i ricchi facevano del proprio denaro. Anche in questo caso, l'uso del
denaro è importante ma secondario; primaria è l'affermazione della dignità
umana.
Allora, è giusto rendere i licenziamenti più facili? A che età
si dovrebbe andare in pensione? Su questi temi ognuno può avere le proprie
idee. Il protestantesimo, però, storicamente ha questo da dire: ogni
provvedimento, ogni decisione, ogni prospettiva abbia come fine la dignità
dell'essere umano. Perché parlare di lavoro significa prima di tutto parlare di
questo, e null'altro. Quale dignità offre la frammentazione e la
precarizzazione del lavoro? Quale società si pensa di costruire se non si offre
alle nuove generazioni la possibilità di un lavoro stabile su cui progettare la
propria vita? Se le macchine hanno sostituito molto del lavoro umano, oggi i
lavoratori sembrano essere considerati come macchine loro stessi, relegando in
secondo piano bisogni, diritti, aspirazioni. Forse questo è il peccato capitale
della nostra civilizzazione occidentale: la reificazione, la trasformazione in
oggetti degli esseri viventi. Come scriveva un pensatore molto critico verso la
modernità come C. S. Lewis – e per questo criticabile e contestabile sotto
molti aspetti – il fine ultimo della nostra civiltà sembra essere "l'abolizione
dell'essere umano".
Dunque, dignità è la parola che va ripetuta e affermata, ma
soprattutto, per non ripeterla vanamente, che va articolata in un nuovo
pensiero e in una nuova predicazione. Una sfida e una missione che il
protestantesimo dei secoli passati ha saputo assumere e affrontare. Ci riuscirà
anche oggi? E' una domanda tutt'altro che peregrina o retorica. Riusciremo a
cogliere il nesso profondo tra l'evangelo e il nostro mondo, tanto da riuscire
a pronunciare parole di verità? Ma anche: riusciremo a farci ascoltare? I
Riformatori, i metodisti del Settecento, i predicatori del Social
Gospel erano ascoltati, avevano un pubblico che ne riteneva le
opinioni rilevanti. Oggi i dibattiti sono aperti solo agli economisti, come se
nessun altro avesse parole significative da pronunciare. Trovare una breccia
per far udire la nostra voce non sarà facile.
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